Newsletter N.°34 – I° semestre 2023
La malattia di Alzheimer è una patologia complessa, anche dal punto di vista degli aspetti eziopatogenetici e fisiopatologici, ed è per questo motivo che la ricerca di un trattamento efficace rimane impegnativa.
Nonostante diversi nuovi potenziali farmaci abbiano dato inizialmente risultati incoraggianti,hanno poi fallito in studi di fase III più ampi
L’AD è dovuto anche, forse soprattutto, alle complesse e non univoche cause della malattia e al fatto che la nostra comprensione delle relazioni fra i numerosi percorsi che portano alla neuro-degenerazione è largamente incompleta.
L’idea quindi che una terapia efficace per l’Alzheimer debba avere come bersaglio diverse molecole e diverse vie metaboliche si è fatta strada negli ultimi anni ed è progredita man mano che si acquisivano nuove conoscenze.
Attualmente le terapie approvate sono limitate agli inibitori delle colinesterasi (rivastigmina, galantamina, donepezil) e memantina o alla combinazione di queste molecole.
Nonostante il trattamento combinato con inibitori delle colinestaresi e memantina abbia determinato un beneficio molto limitato, i ricercatori sono convinti che in futuro bisognerà cercare nuove associazioni farmacologiche che abbiano una logica
Innanzitutto bisognerà iniziare ad associare l’utilizzo dei farmaci sintomatici che abbiamo citato con i nuovi farmaci che vengono chiamati “disease modifying therapies”, cioè farmaci in grado di modificare il decorso della malattia. Ci riferiamo innanzitutto agli anticorpi monoclonali che sono attualmente in commercio negli USA, ma che verosimilmente in tempi non lunghi verranno commercializzati anche in Europa (aducannumab e lecanumab). Questi anticorpi sono in grado di bloccare la cascata dell’amiloide (quella che porta alla formazione della amiloide tossica delle placche seni-li), ma la stessa azione potrebbero svolgerla molecole attualmente in sperimentazione come i vaccini della beta-amiloide e gli inibitori dell’enzima beta-secretasi.
Accanto all’azione sull’amiloide è chiaro che bisognerà anche bloccare le iperfosforilazione delle proteina tau (responsabile dei grovigli neurofibrillari) attraverso l’immunizzazione attiva
(vaccino) o passiva (anticorpi).
Altrettanto importante nel processo neurodegenerativo sembra essere la neuroinfiammazione e quindi una terapia combinata futura non potrà prescindere dalla presenza di un farmaco antinfiammatorio.
Ci siamo limitati a considerare i farmaci in commercio, quelli che lo saranno a breve e quelli che sono in fase di sperimentazione avanzata, ma le evidenze scientifiche indicano anche molti altri possibili target di trattamento. Citiamo ad esempio le vitamine del gruppo B e del gruppo D, la stimolazione cerebrale profonda, gli antagonisti degli inibitori delle MAO B, gli agonisti di melatonina e seretonina, i modulatori della neurotrasmissione legata al glutam-mato.
Seppure incontrino difficoltà metodologiche notevoli, attualmente nel mondo sono in corso moltissimi studi che prevedono l’aggiunta di un farmaco alle terapie sintomatiche tradizionali e cominciano ad essere concepiti trials clinici che prevedono la somministrazione di una combinazione di farmaci sperimentali.
Bisogna considerare che una strategia di questo tipo, nuova per quanto riguarda le demenze, è largamente utilizzata ormai da anni per la cura ad esempio dei tumori e dell’HIV.