Cos’è la malattia di Alzheimer

Per “demenza” si intende il progressivo ed irreversibile venir meno dapprima della memoria recente e delle capacità di apprendimento e poi, via via, della capacità di critica e giudizio e di tutte le funzioni cognitive strumentali come il linguaggio, la capacità di riconoscere persone, oggetti e situazioni, programmare attività complesse e finalizzate, muoversi nello spazio. Dopo alcuni anni di malattia si perde progressivamente l’autonomia anche nelle più semplici attività quotidiane, per essere infine confinati in un letto, incontinenti, apatici ed incapaci di comunicare perfino qualsiasi emozione, fino ad una morte che in genere avviene per manifestazioni infettive o per cachessia. Come è intuitivo, si tratta della più devastante e temibile delle malattie legate all’invecchiamento patologico, sia per il paziente che ne è affetto che per la sua famiglia.

 

  1. EPIDEMIOLOGIA

    Questa condizione non è affatto rara e in Italia colpisce circa il 7% dei soggetti di età superiore ai 65 anni, con una leggera prevalenza delle donne e dei soggetti poco scolarizzati. Oltre gli 85 anni la prevalenza della demenza arriva al 20-30%, spesso complicata da deprivazione sensoriale (ipoacusia, cecità) e psicosociale. Si calcola che in Italia i soggetti dementi siano oltre mezzo milione e il loro numero è destinato ad aumentare in rapporto alla prevedibile tendenza ad una ulteriore sopravvivenza delle classi di età più avanzata.

    I costi psicologici ed affettivi per i parenti sono enormi, come pure quelli sociali, dovuti alla cronicità della malattia, alla necessità di una assistenza continuativa e, spesso, alla fine del decorso, alla necessità di una istituzionalizzazione. I costi economici sono elevatissimi: uno studio italiano del 2006 dimostra che ogni anno in media un paziente con demenza “costa” fra 15.000 e 45.000 euro, secondo i metodi di valutazione, mentre in tutta Europa nel 2010 la spesa annua nel 2010 per i pazienti con demenza è stata di 17 miliardi di euro.

  2. CLINICA

    La malattia di Alzheimer è la più comune forma di demenza che compare nelle fasi medio-avanzate della vita umana. A seconda delle casistiche, questa diagnosi è formulabile nel 50-70% dei casi di demenza, seguita dalle forme vascolari e dalle forme miste degenerative e vascolari,  rappresentanti il 20-30% dei casi. Più rare forme di demenza sono associate a malattie degenerative cerebrali (malattia di Parkinson e demenza con corpi di Lewy diffusi) o la demenza frontotemporale Rarissime ormai sono le demenze associate a malattie tossico-metaboliche (alcoolismo, ipotiroidismo) o infettive (neurolue, AIDS)

    Della malattia di Alzheimer sono noti alcuni fattori predisponenti, il ché purtroppo non consente ancora una soddisfacente prevenzione, anche perché il principale fattore di rischio è l’aumento dell’età media di sopravvivenza, che appunto è una delle caratteristiche, non necessariamente positiva, della vita moderna.

  3. PATOGENESI

    La malattia di Alzheimer ha una patogenesi certamente multifattoriale, in cui la componente genetica è importante, anche se non ancora del tutto chiarita. Al di là di rare situazioni in cui la trasmissione della malattia è dominante, un rischio lievemente maggiore per lo sviluppo della malattia è certamente presente nei parenti di primo grado di soggetti malati e nei portatori di alcune varianti fisiologiche (polimorfismi) delle apolipoproteine o di altri fattori biochimici

    Esistono anche componenti ambientali che possono condurre alla malattia di Alzheimer: per esempio, è probabile che traumi cranici commotivi, l’ipertensione arteriosa nella età matura e lo stesso diabete svolgano un ruolo favorente il processo patogenetico.

    Attualmente si ritiene che il primum movens della malattia origini nell’anomalo metabolismo di una proteina della membrana neuronale, che comporta la produzione di metaboliti insolubili che si depositano come “placche amiloidee” in grado di accelerare il processo anomalo e di svolgere una azione neurotossica locale che conduce al collasso delle strutture proteiche dei neuroni (“degenerazione neurofibrillare”) e quindi ad una irreversibile morte neuronale.

  4. DIAGNOSI

    La diagnosi di malattia di Alzheimer è in primo luogo una diagnosi di esclusione rispetto ad altre cause e solo recentemente è diventata comune la ricerca di metaboliti tipici della malattia nel liquor o la visualizzazione PET di placche amiloidee, esame non ancora disponibile in Italia. Questo rende nella pratica clinica più difficile la diagnosi precoce di questa demenza e spesso è necessario attendere alcuni mesi di osservazione del decorso clinico per poter formulare una diagnosi corretta.

    Una diagnosi precoce è ritenuta attualmente utile per iniziare una terapia mirata a rallentare il decorso della malattia, ma sarà assolutamente indispensabile quando saranno disponibili terapie più incisive sulla evoluzione della malattia, tali da poter arrestare il processo patogenetico ad uno stadio iniziale.

  5. STADI DI MALATTIA

    I disturbi della memoria sono i primi segni di una demenza, ma sono comuni anche in una popolazione anziana non demente. Pertanto il Medico di famiglia avrà il compito di interpretare e valorizzare tale sintomo, tranquillizzando eventualmente il paziente sulla “normalità” dello stesso in rapporto all’età. Solitamente il decorso della malattia di Alzheimer evolve attraverso tre fasi, talora coesistenti e di difficile delimitazione, per un totale di una durata di 5-10 anni fra i primi sintomi e l’exitus. La prima fase è quella definita “neuropsicologica” per l’inizio di disturbi della memoria episodica recente, sfumati dapprima, ma poi sempre più evidenti ed accompagnati da segni di difficoltà nel linguaggio, nelle capacità di calcolo, di critica, di giudizio e/o di programmazione delle attività quotidiane.

    Durante questa fase, che dura anche diversi anni, il paziente è autonomo nelle attività primarie, ma può presentare una gamma di reazioni emotive ai disturbi, di cui solitamente si rende conto. Il paziente diventa progressivamente meno autonomo (non esce più di casa da solo, non è in grado di vestirsi correttamente da solo, può presentare saltuaria incontinenza) fino alla fase “neurologica” in cui possono comparire disturbi motori, come anomalie posturali, mioclonie, vere e proprie crisi epilettiche e, talora, sintomi psichiatrici come deliri, allucinazioni e affaccendamento afinalistico. La fase terminale della malattia è spesso chiamata “internistica”, perché il paziente, solitamente confinato a letto, incontinente e non contattabile in alcun modo, presenta problemi infettivi (dovuti ai disturbi della deglutizione, alla necessità di cateterizzazione vescicale) e cachessia con disidratazione.

  6. TERAPIE

    Negli ultimi 20 anni sono stati compiuti enormi progressi nella comprensione delle iniziali cause e degli intimi processi di questa malattia, ma a tutt’oggi sono disponibili solo farmaci che possono al massimo rallentare, per qualche tempo e solo in una parte dei pazienti, la sua evoluzione.

    Tuttavia l’ulteriore progresso delle conoscenze, identificando i soggetti a maggior rischio, permetterà probabilmente di intervenire precocemente sui fattori di rischio e sono già in studio terapie nuove che in un non remoto futuro consentiranno di arrestare realmente il processo patologico, anche se non è purtroppo prevedibile che possano invertirne l’evoluzione.

    Come già accennato, farmaci che agiscano sul processo patogenetico della malattia non esistono ancora. Attualmente vengono impiegati gli anticolinesterasici, farmaci che, agendo sul catabolismo dell’aceticolina, sembrano “rallentare” la malattia, in un terzo circa dei pazienti e limitatamente alla sue prime fasi. Sono in fase di studio numerose famiglie di farmaci agenti su passaggi patogenetici diversi e prevedibilmente più efficaci, ma occorreranno anni prima della loro disponibilità sul marcato.

    Alcuni sintomi associati alla malattia, come l’insonnia, la depressione, le allucinazioni o i deliri, possono essere ben controllati con i farmaci comunemente impiegati in psichiatria, naturalmente sotto stretto controllo medico specialistico.

    Esistono poi terapie non farmacologiche che tendono a stimolare e valorizzare le funzioni cognitive residue (stimolazione cognitiva, Reminiscence Therapy, Reality Oriented Therapy), facilitare l’espressione non verbale (arteterapia), a mantenere le capacità funzionali (psicomotricità, musicoterapia) o a rasserenare (Doll Therapy) il paziente.  Infine, ma della massima importanza, è necessario preparare ed informare i famigliari più diretti delle caratteristiche della malattia, della sua evolutività, delle richieste che il paziente non è in grado di formulare ma che è necessario soddisfare compiutamente ed infine delle possibilità socio-assistenziali attualmente disponibili.